città meticcia

LA CITTÀ METICCIA
programma e trascrizione di tutti gli interventi

SESSIONE TEMATICA DELLA BIENNALE DELLO SPAZIO PUBBLICO
PROMOSSA DA INU - ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
SABATO 14 MAGGIO, ORE 9,30 – AULA F

Il tema di questa sessione è quello delle occupazioni a scopo abitativo, osservate non solo come efficaci risposte al problema della casa, ma come interessanti laboratori di spazi pubblici interculturali. Da diversi anni nelle occupazioni la popolazione di origine straniera ha superato quella di origine italiana, ed è lì che si sta sperimentando la città meticcia abitata da popoli provenienti dai cinque continenti. Sono realtà che spesso hanno molto da insegnare al resto della città per quanto riguarda le contaminazioni tra le diverse culture e che recentemente sono state capaci anche di includere comunità di Rom altrimenti destinate a vivere in baraccopoli o in campi fuori dalla città. Le occupazioni, quindi, lette come condomini interculturali dove oltre alle case esistono cortili, giardini, spazi di soglia, spazi comuni ormai estinti nel resto della città. Ma le occupazioni anche come luoghi dove la città ha difficoltà ad entrare e da cui è problematico uscire, enclave le cui mura diventano a volte barriere fisiche insormontabili come i muri dei pregiudizi che le circondano. Sono tante le domande che maturano: Che tipi di spazio pubblico si producono nelle occupazioni? Che ricchezza potrebbero offrire ai quartieri intorno? Come vivono gli occupanti gli spazi pubblici della città? Come rendere permeabili i confini e contaminare il dentro con il fuori e viceversa? Come può entrare la città preservando le caratteristiche di città altra di questi luoghi? Ne discutono gli abitanti di tre occupazioni - Metropoliz, Tempesta e Porto Fluviale – insieme a Pidgin City, gruppo di ricerca attivato dal Dipartimento di Studi Urbani di Roma Tre, con ricercatori di diverse Università.

09.30 Introduce i lavori Francesco Careri
09.40 Pidgin Makam. Installazione in forma di tavolo dei nove cubi realizzati a Metropoliz dagli studenti e presentazione della Stakeholder Analysis. A cura di Maria Rocco, Giorgio Talocci e degli studenti del workshop “Pidgin Makam”*
10.00 Abitare meticcio, dal condominio alla città e ritorno. Storie di convivenza, di spazio pubblico e di città, raccontate dagli abitanti delle occupazioni:
- porto fluviale (Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa)
Intervengono: Elkebira Adoud, Roberto Suarez, Rider, Giulia Bucalossi, Margherita Pisano
- tempesta (Action)
Intervengono: Khadija Ouahmi, Sofia Sebastianelli
- metropoliz (Blocchi Precari Metropolitani e Popica Onlus)
Intervengono: Lucica Constantin, Irene Di Noto, Guendalina Curi, Andrea Valentini

Dibattito con le Associazioni del quartiere Tor Sapienza, Nicola Marucci (Ass. Michele Testa) e Carlo Gori (Tor Sapienza in Arte)
12.00 Pidgin City. Interventi, dubbi e domande del gruppo di ricerca interdisciplinare Pidgin City: Francesco Careri, Nick Dines, Adriana Goni Mazzitelli, Elena Mortola, Enrica Rigo, Ilaira Vasdeki, Piero Vereni

13.20 Fabrizio Boni e Giorgio De Finis annunciano il progetto del film “Space Metropoliz”
13.30 Chiude i lavori Maria Vittoria Tessitore

* Workshop Pidgin Macam, filiera “architettura e società” del Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 LMPA, svolto nel novembre 2010, in collaborazione con gli abitanti di Metropoliz, Blocchi Precari Metropolitani, Popica Onlus, Laboratorio Tipus, Atelier Danza Montevideo, Cantieri Comuni, Associazione Michele Testa, Associazione Tor Sapienza in Arte. Docenti: Francesco Careri con Adriana Goni Mazzitelli e Miguel Fascioli. Lezioni di Mauro Gagiotti, Nicola Marcucci e Viviana Petrucci. Coordinatori: Maria Rocco, Giorgio Talocci, Hector Silva, Andrea Valentini, Maria di Maggio, Camila Kuncar.
Fase di approfondimento, genn-feb 2011, coordinata da Maria Rocco e Giorgio Talocci. Studenti 9 cubi: Cristina Ciccone, Laura Criscuolo, Lorenzo Catena, Francesco Cusani, Onorato Di Manno, Clara Dionisi, Alessandra Romiti, Flavio Graviglia, Matteo Parenti. Studenti stakeholder analysis: Alice Ampolo, Simone Camilletti, Giulia De Rossi, Sara Di Rosa, Susanna Fagiotti, Michela Fresiello, Valeria Lollobattista, Francesca Micco, Luca Pennelli, Guido Pederzoli, Alessandra Schmid, Alessandro Toti, Raffaele Trabbace, Pablo Vasquez. (http://espaciopidgin.blogspot.com/)


Testo di Francesco Careri, coordinatore della sessione:

“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell’altro"Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo di là si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.” (Bibbia, libro della Genesi 11, 1-9)

Forse a stupire non è il fatto che tante popolazioni provenienti da diverse parti del mondo abbiano insieme fondato una città - tutte le città nascono come incontro di popoli diversi, e Roma fu crocevia di incontro tra Etruschi, Latini e Sabini (che sono forse i famosi Tizio, Caio e Sempronio come ipotizza Lorenzo Romito) – ma quello su cui interessa soffermarci è che oggi non si riconosce invece ai migranti un ruolo di ricostruttori delle nostre città, dei nostri spazi pubblici, forse proprio del nostro senso civico.

Per costruire la Torre di Babele è bene avere una lingua comune, una lingua meticcia, forse creola, meglio ancora “pidgin”. Il poeta creolo recentemente scomparso Edouard Glissant ci aiuta a comprendere una importante differenza tra il meticcio e il creolo:  “la 'creolizzazione' è il risultato del contatto tra culture diverse in uno spazio definito, che ha originato qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile perché non legato a ciascun elemento separato che lo costituisce. (…) la creolizzazione va distinta dalle definizioni di interazzialità (meticcio, mezzosangue) o di multietnicità, perché ciò che produce è imprevedibile, è un insieme di nuovi valori relativi, di nuove 'relazioni di essere-con-il mondo', cioè nuove modalità di rapportarsi con il mondo. In alcuni casi, gli effetti dell'essere meticci/mezzosangue possono essere più facilmente prevedibili e calcolabili, mentre la creolizzazione aggiunge un valore che è l'imprevedibilità.” 

Il meticcio apre la dimensione interculturale, il creolo aggiunge l’imprevedibile, il pidgin, come vedremo, la dimensione dell’errore. Una lingua pidgin è infatti il grado zero di questo processo, è il nascere di una nuova lingua, fatta di parole sbagliate o mal pronunciate. È l’emergere di un primo spazio di comunicazione reciproca tra diversi che nasce dall’errore, da non intendersi come sbaglio da correggere, ma come disponibilità ad una dimensione imprevedibile della realtà. La parola pidgin deriva infatti dalla scorretta pronuncia cinese dell’inglese business e aveva obbligato gli inglesi, quando volevano fare commercio con i cinesi, a dire pidgin al posto di business, a storpiare il loro proprio linguaggio per farsi comprendere dai cinesi. Per parlare pidgin bisogna entrare nell’errore, essere disposti a sbagliare deliberatamente, a non voler correggere e determinare, ad affidarsi al caso e all’imprevedibile. Per partecipare alla costruzione di Pidgin City ci si deve liberare della paura di sbagliare. Mettersi in grado di inciampare. Errare. Sbagliare strada deliberatamente. Rendersi disponibili al progetto dell’indeterminato. A Pidgin City bisogna liberarsi dell’idea che chi arriva debba essere integrato/assimilato/omologato alla cultura che lo ospita. Chi arriva ci cambia, forse ci porta ad errare, sicuramente ci può indurre in una dimensione inaspettata.

I migranti portano con loro una capacità di trasformazione informale della città che in passato ci ha permesso di costruire le nostre città. Sono loro che riabitano molti degli spazi pubblici che la città aveva lasciato vuoti o abbandonati, come anche gli spazi stravissuti come gli autobus, le metropolitane, le piazze e i giardini dei centri storici. Parti di città che hanno cominciato a trasformarsi attraverso nuovi usi e comportamenti: feste e riti comunitari, abitazioni temporanee, phone center, alimentari e mercati improvvisati nelle stazioni di arrivo e partenza dei pulmini transnazionali, fenomeni che si attivano solo in una determinata ora di un determinato giorno, fino ad azioni più quotidiane come il mettere sul marciapiede una sedia per incontrarsi e chiacchierare con i vicini di casa. Tra questi le occupazioni a scopo abitativo, sono non solo efficaci risposte al problema della casa, ma anche interessanti laboratori sperimentali di spazi pubblici interculturali. Da diversi anni nelle occupazioni la popolazione di origine straniera ha superato quella di origine italiana, creando una sorta di condomini interculturali dove oltre alle case esistono cortili, giardini, spazi di soglia, spazi comuni ormai estinti nel resto della città. Forse sono proprio queste le realtà dove la città informale e quella formale possono trovare uno spazio di reciprocità, di legittimazione dell’informale e di contaminazione del formale, in forme inedite, solidali e condivise.


Testo di Adriana Goni Mazzitelli

Nell’ultimo report State of the world cities 2010/2011 di UN Habitat, dedicato al gap tra poveri e ricchi nelle grandi città, si fa una lunga apologia delle città come luoghi di libertà - democrazia e rispetto dei diritti umani, in particolare di donne, giovani e anziani – di opportunità, di sviluppo e crescita per alcuni paesi del sud del mondo, e motori indiscutibili della modernità. E questo non solo considerando le città, ma anche le città-regioni e le grandi aree metropolitane tra i 20 e i 140 milioni di abitanti. Le campagne e i territori non antropizzati, invece si descrivono come territori di guerra, di anarchia, di conflitti armati, campagne dove i contadini fanno la fame, e dove nuove malattie si aprono il passo. I continenti e i paesi meno urbanizzati, come ad esempio l’Africa, vengono quindi tacciati di “arretrati”, e si auspica che vi sviluppino “contesti urbani” come ricetta per la crescita economica.

Il report è alquanto contraddittorio, visto che le informazioni che vengono date in seguito sulle condizioni di vita quotidiana delle persone negli slums è devastante e si riconosce quindi che il livello di povertà è superiore nelle aree urbane che in quelle rurali. Ma le cifre complessive, a sostegno della loro tesi, continuano a dare le aree rurali come quelle più povere. Ci chiediamo allora quali sono gli indici di misura e mettono a confronto anche dati sulle qualità ambientali della vita, sulla solidarietà, segregazione, marginalità, sottomissione, discriminazione, crimine, droghe, violenza, inquinamento, abitazioni precarie e pericolanti, ecc. Come fare oggi una comparazione tra vita rurale e vita urbana basandosi solo sulla ricchezza o povertà economica? I dati di Mumbai in cui la metà degli slums non hanno scuole primarie, è infatti al quanto contraddittorio con il sostegno che queste città dovrebbero dare all’emancipazione delle donne o alle famiglie. Quello di pianificare, sbilanciandosi verso il futuro e senza prendere in considerazione l’essenza stessa del tipo di abitare che si produce, ci sembra che sia inevitabilmente un boomerang per le popolazioni di queste nuove aree, e delle intere città che le ospitano, che vedono diminuire la qualità dell’abitare.

Ci sembra fondamentale, quando si parla della migrazione attuale in Europa, di considerare che le nuove ondate che arrivano in Italia, provengono di contesti diversi da quelli arrivati in Francia e UK qualche decennio fa[1]. Queste popolazioni scappano non solo dalle guerre e dalla povertà, ma anche dalla “marginalità” urbana, che il modello economico di crescita globale ha imposto negli ultimi tempi nei loro paesi. Ma non tutto è negativo, queste nuove popolazioni anticipano la precarietà lavorativa ed insegnano una forma diversa di rapportarsi alla città che gli sta intorno. Il fatto di provenire da situazioni marginali, dove grandi porzioni di città vengono lasciate all’informalità, ha fatto sviluppare nel tempo delle strategie proprie che sono variegate ed hanno provveduto a dare vita e identità a questi luoghi di “scarto”, gli slums[2].

Queste popolazioni hanno imparato a costruirsi una città e una vita parallela con proprie regole, come racconta Arundhati Roy nel “Il Dio delle piccole cose”[3], quando ci parla del risveglio della dignità e consapevolezza delle persone di prendere in mano il loro destino. Consapevolezza che ci interessa per due motivi: il primo è la nascita di un senso di ingiustizia, o meglio la trasformazione di questo senso in una azione esplicita di protesta in vari paesi del Sud del Mondo, dalle rivolte indigene, a quelle indiane dei paria, o ancora i movimenti urbani dei “sem tetto” in brasile o la recente “primavera araba”.  Il secondo è una rinascita di mille piccole “trasgressioni”  delle regole, collegata al senso di combattere un sistema ingiusto, opprimente e dal quale sono stati lasciati fuori per decisione di qualcun altro. In questo senso le occupazioni di case, di fabbriche e di luoghi di lavoro, e gli allacci abusivi a servizi come luce e acqua, non sono più visti come uno stato di “eccezione”, di “emergenza”, ma  una consapevole decisione presa e gestita dal basso[4].

Mentre il mondo si muove in questa direzione, che succede in Italia? Anche qui ci troviamo di fronte a logiche di speculazione economica della città. E anche qui s’inizia a percepire un senso d’ingiustizia sociale e di azioni contro un ordine non più fondato nei diritti ma sui favoritismi politici con il potere economico. Questa “primavera italiana” di mille movimenti territoriali, che si oppongono a progetti pensati dall’alto senza misurare le conseguenze ambientali e sociali per le popolazioni locali, dimostra come le ondate rivoluzionarie del sud siano arrivate anche in Europa. Ma il punto che ci interessa qui è l’unione tra i comitati territoriali e i nuovi arrivati riguardo le lotte sulle tematiche più scontanti come la casa, la sicurezza sul lavoro, lo sfruttamento, la mafia, l’elementare possibilità di decidere sulla propria vita e il superamento dell’apartheid dei campi rom.

Le occupazioni per esempio stanno costruendo un movimento culturale e di sostegno intorno a sé, cercando di affrontare la tematica della nuova città precaria e marginale, insieme ad altri attori, che ancora timidamente si relazionano tra di loro, nella ricerca di collaborare ad un percorso di emancipazione e convivenza culturale. Questa rete che è ancora debole si è sperimentata in alcune collaborazioni, dimostrando un grande potenziale, in quanto scenario spontaneo di accoglienza e “altra voce” diversa a quella ufficiale, sul destino dei migranti, e in particolare dei Rom a Roma.

Come dicono loro stessi, adesso la sfida è “vincere il confine”, cercare di essere una parte integrante e articolata di questa città, guadagnano in legittimità e sperando di vedere riconosciuti e garantiti i loro diritti. Questo luogo e il lavoro di questi anni a Roma, ci dimostra che deve essere portato avanti in forma creativa. Come dice Carlo Cellamare[5] gli scenari e le intensità di queste battaglie mutano nel tempo, la politica si fa “liquida”, e alla fine quello che rimane sono le storie di cosa è successo intorno alla costruzione dei luoghi della città. Per questo è impossibile dare ricette, né si intende trovare la combinazione giusta degli ingredienti, se più arte, meno politica, più progettualità o più azione. Per adesso osserviamo che tutti gli ingredienti sono necessari, e che gli eccessi corrispondono a costruzioni artificiali dei gruppi che lo propongono, come diceva Monique Selim[6], allieva di Gerard Althabe, il nostro contributo con lo sguardo antropologico è utile se diviene un momento in cui la realtà riprende la sua dimensione olistica, complessa e non viene frammentata da subito in aree (economica, sociale, artistica, fisica). Il nostro obiettivo potrebbe essere una complicità  negli intenti tra attori diversi, che parte dalla storia del luogo e dei percorsi che hanno fatto le persone per arrivare lì, e porta a costruire un orizzonte (utopias), verso il quale errare insieme.


Trascrizione degli interventi:


Francesco Careri_ Roma Tre

Il tema di cui oggi vorremmo ragionare insieme a voi è quello della relazione tra le occupazioni e lo spazio pubblico, e questi due termini potrebbero sicuramente aiutarci: Pidgin, di cui abbiamo già detto (vedi testo sopra) e Makhan che vuoi dire in arabo “spazio” ma anche “improvvisazione”, “indeterminatezza”.

Comincerei dal posto in cui siamo, il mattatoio di Testaccio, a pochi metri da qui nel 99 con Stalker abbiamo dato vita ad Ararat insieme ai curdi, e intorno a noi c’erano diverse comunità come i rom kalderasha, i senegalesi, marocchini, tunisini, moldavi, rumeni. Tra tutte queste diverse comunità non esistevano dei confini, ossia i confini c’erano ma erano impalpabili, non c’erano delle barriere fisiche e i rom kalderasha non avevano ancora una recinzione intorno a loro, ma semplicemente, camminando uno a un certo punto capiva che di essere entrato a casa loro. Questo dipendeva anche a seconda delle diverse ore dal giorno, per esempio di giorno uno arrivava fino a sotto una roulotte e invece la sera sapevi che se ti trovavi lì eri indesiderato.

Questa questione dei confini è uno dei temi che vorrei mettere sulla tavola, non per dire che i confini vadano annullati, perché se i confini ci sono ci sarà un motivo, e quindi forse è bene capire a cosa servono, conoscerli, capire a che ora servono, se servono sempre, se alcuni confini sono stati superati e ne possiamo fare a meno, se ne possiamo fare a meno in certi giorni e non in altri della settimana, o in certe ore del giorno e della notte. Insomma un tema che mi iacerebbe che sia affrontato è come gestire l’ingresso dalla città e l’uscita dalle occupazioni.

Uno dei temi ricorrenti  nelle occupazioni è: cancello aperto o il cancello chiuso. Forse può essere aperto e chiuso, dipende quando e dove, come va gestita questa apertura. Forse la città può avere degli spazi dentro, e questo è bene perché legittima l’occupazione, fornisce servizi al quartiere e il quartiere è invitato ad entrare, ne trae vantaggi.

Mi piacerebbe ragionare su come le occupazioni stanno dentro la città, su come la città entra dentro, su come voi occupanti concepite la città. Parlando con Kadija, lei mi diceva “quando noi andiamo in piazza”, e le ho chiesto “ma qual è la piazza per voi, quella del quartiere, un cortile interno?” No per Kadija la piazza è dove si va a protestare quando si fanno le manifestazioni. Questo fatto che si riconosca la piazza come luogo di auto rappresentazione, presentazione di sé, e luogo di conflitto, forse è l’introduzione di un nuovo qualcosa. Ecco ci interessa capire i termini e le parole che usate e come le sentite, proprio quelle dello spazio pubblico: la strada, la piazza, la stazione….

Ci interessa il passaggio graduale dal domestico all’urbano, dalla casa allo spazio che c’è tra una casa e l’altra, forse già il pianerottolo, e via via ad uno spazio più ampio, al posto dove ci si incontra con altri forse a una determinata ora, o che diventa un luogo condiviso da una certa comunità, e poi ci saranno probabilmente dei luoghi condivisi da più comunità ancora n altri sazi, fino ad uscire dal cancello ed entrare nella città.

Roberto Suarez _  Porto Fluviale

Sono lieto di essere qui per poter costruire qualcosa che possa servire in forma applicativa ai percorsi che ognuno di noi fa. Per cominciare vorrei dire, che ad un semplice sguardo il titolo città meticcia mi risulta particolare. Da noi in lingua spagnola indica la provenienza della persona, i suoi tratti etnici,[7] ma mi hanno detto che in lingua italiana, questo temine non è usato tanto per gli esseri umani ma sopratutto per gli animali. Ma oggi stando qui capisco che questa parola ha un altro significato, e siccome ogni parola dipende del suo contesto culturale, oggi si può usare cosi.

La storia dell’occupazione di Porto Fluviale, il percorso di lotta, spiega il rapporto che c’è tra di noi, si è stabilito nel tempo, è maturato e continua ad evolversi per proiettarsi al quartiere. Questo posto è di proprietà pubblica, appartiene al Ministero dell’aeronautica militare, ma con il cosiddetto federalismo demaniale sta passando al Comune, e oggi abbiamo una vertenza aperta.



Quando siamo arrivati era un posto abbandonato da anni, inagibile, coperto di polvere, di terra morta, servizi inservibili, eravamo all’incirca 250 nuclei familiari, tra single e nuclei di 3 e 4 membri. E allora la necessità fisica, logistica di poter rendere il posto vivibile e funzionate, ha fatto si che ci mettessimo al lavoro. Prima abbiamo iniziato con i servizi igienici, erano 3 o 4 che funzionavamo più o meno, gli altri non funzionavano, e stiamo parlando di 400 persone. Abbiamo fatto i lavori tutti insieme, tutti noi provenienti di diversi paesi, sia dall’est d’Europa che dal nord africa, la zona magrebina, il Sudamerica, e anche italiani, in minoranza, che avevano una realtà precaria complessiva. Da subito abbiamo istituito una assemblea per poter risolvere i problemi quotidiani, come organizzarci con il lavoro e con il picchetto, perché avevamo occupato un posto pubblico e quindi era da aspettarsi che ci fosse uno sgombero. I primi tempi sono stati molto duri, perché ci siamo trincerati, senza uscire per settimane, sono passati da allora ormai 8 anni, l’occupazione è iniziata nel 2003. Tra qualche settimana faremmo il nostro ottavo anniversario e vi invitiamo a stare con noi a festeggiare la prima o seconda settimana di giugno. La struttura assembleare, che per voi non è nuova e viene degli anni 70, ci ha servita quale palestra per poterci conoscere e per limare le nostre asprezze, visto che tutti noi avevamo un bagaglio culturale molto diverso, molto vario, e quindi quello che era normale per uno per l’altro non lo era, e nella pratica quotidiana la convivenza si rendeva proprio difficile per questo.



Abbiamo poi diviso gli spazi a seconda della densità  familiare di ognuno dei nostri nuclei, e dopo la lotta, più o meno 3 - 4 anni, siamo arrivati ad un punto della vertenza in cui abbiamo potuto dire  “adesso vogliamo e possiamo fare molto di più”, e abbiamo incominciato a fare i lavori più massici, che riguardassero non soltanto il minimo indispensabile. Perché prima stavamo in uno stanzone, senza divisioni, senza intimità, senza privacy, come la chiamano qua. Abbiamo cominciato a individuare i nostri spazi, renderli personali a seconda dei nostri propri bisogni familiari. Questo lo abbiamo fatto negli anni, ma non ci rendevamo conto di una cosa, che questo processo a noi ci stava trasformando. Quindi noi trasformavamo il luogo fisicamente e il luogo ci trasformava a noi, ci modificava. Perché noi stavamo crescendo in consapevolezza. Prima il problema del tetto. Poi una volta che avevamo risolto questo e arrivavamo a delle mete concrete, noi ci sentivamo più forti e pronti per fare più cose, e più articolate, e questo abbiamo fatto. Tutti questi anni ci hanno portato anche a rendere abitabili e funzionali certi posti all’interno di Porto Fluviale che durante anni non avevamo neanche in uso. Abbiamo trasferito il posto assembleare che adesso è più grande ed è più vicino all’ingresso, adesso abbiamo una piccola palestra, proprio palestra, e tra qualche settimana apriremo un posto che si proietta al quartiere. Perché questa è l’idea nostra, questo percorso che abbiamo fatto ci ha fatto capire che non basta il tetto sulla testa. Noi dobbiamo agire, perché nel frattempo ci siamo allenati per diventare cittadini e agire come tali. Abbiamo creato una rete di rapporti tra di noi, che non è che annulla le nostre differenze e i nostri disaccordi, semplicemente li abbiamo messo un po’ da parte, siamo arrivati a degli accordi. E allora noi stiamo già per aprire al quartiere questo posto che sarà di socializzazione con il quartiere, perché vogliamo che il quartiere e noi possiamo integrarci, sempre a livello cittadino, per potere contare di più, soprattutto riguardo alla governance di questa città e lasciare che non sia cosi verticale ma che sia più trasversale e orizzontale, dove il nostro parere, il parere dei vicini non sia chiesto alla fine di un processo che è stato deciso prima dall’alto, ma dall’inizio.





Khadija Ouahmi – Tempesta



Sono Khadija di Action , occupazione Tempesta, via antonio tempesta, ex-asl di Torpignattara.

Quando si occupa un posto s’inizia a lavorare tutti insieme, da compagni, non esiste il mio vicino di casa che si chiama “vicino di casa”, ma “compagno di vita in quella fase che io sto là dentro”. Detto questo volevo dire come si entra cauti in una zona e come si forma il rapporto con il quartiere. Quando Tempesta è entrata, ha presso questo posto, ha comunicato questo fatto al quartiere con dei volantini per dire chi siamo, da dove siamo venuti, perché abbiamo occupato e chi sono soprattutto le famiglie che stanno dentro. Perché il quartiere deve ovviamente sapere il vicinato chi è, perché il vicinato è impaurito e quindi trovando nella casella della posta comprende che chi è venuto non è un intruso ma è una persona che sta lottando per un diritto negato. Perché il diritto alla casa e al lavoro vuoi dire dignità, e quindi che il vicino è venuto per acquistare lottando una dignità di sopravivenza. Perché noi andiamo a prendere le ville, andiamo a prendere gli spazi pubblici che sono abbandonati, e lavoriamo e facciamo di tutto per essere riconosciuti come esseri umani. Non vuoi dire che uno che non ha la possibilità di andare a vivere in una casa non ha il diritto di sopravivenza dentro un posto abbandonato.



Il nostro spazio sociale che abbiamo preso è un palazzo di 3 piani. Il piano terra lo abbiamo utilizzato per creare questo rapporto con il quartiere, e abbiamo aperto un posto con un nome QUIEBRA LEY, vuoi dire spacca pietra, vuoi dire spacca legge, in spagnolo, che noi lottiamo per avere un diritto che ci appartiene. Abbiamo aperto un aula per corsi, che abbiamo cercato di dare al quartiere quello che lo stato e il comune non danno a quel quartiere. Abbiamo dato corsi di arabo, di francese, di inglese, tutto gratuitamente. Il cancello si apre, per ospitare a questa gente, per entrare a conoscere una cultura nostra, tramite una insegnate di lingua madre inglese, araba (che sono io) e anche una insegnante di lingua italiana. Questo spazio noi lo utilizziamo sempre di pomeriggio dopo che i bambini escono da scuola, che le mamme ci portano i bambini, dalle 16 alle 19, quindi un orario accessibile, abbiamo anche dialogato con le mamme qual’era l’orario che poteva essere più utile, che potevano essere libere. Poi abbiamo aperto un ufficio legale dove gli stranieri hanno assistenza legale per motivi o di lavoro o di permesso di soggiorno, abbiamo seguito la storia di Rosarno. Abbiamo ospitato la gente di Rosarno, siamo andati a cercarli alla stazione Termini, li abbiamo ospitati e abbiamo portato la loro voce alla piazza. La piazza che per noi, per me, è i miei compagni, è il posto dove si lotta. Noi siamo persone, siamo gente che lottiamo per ottenere. Non conosco io la parola trovi le cose facili, perché niente è facile. Per ottenere un diritto si lotta, in tutti i posti. Ma per ottenere un diritto esco alla piazza per fare capire a livello pubblico, quello che questo stato non mi sta offrendo, ma che è un diritto mio.



Noi ospitiamo anche persone che automaticamente hanno problemi perché il loro permesso di soggiorno è stato negato, per qualche motivo, anche se ha un datore di lavoro che lo sta sfruttando, non gli riconosce i suoi diritti, e questo ufficio legale è aperto il giovedi dalle ore 16 alle ore 19, con altri miei compagni che seguono l’ufficio per gli stranieri.  Poi abbiamo aperto un piccolo bar, che noi lo abbiamo chiamato un reparto sociale aperto all’esterno, dove tu puoi prendere un caffetino, con una cosa minima, con 30 centesimi, ma il bello è che tu entri in uno spazio che è stato abbandonato ed è stato creato un bar che tu entri in una occupazione e ti mangi il pane che è stato fatto da un’araba, e se mangi una brioche è stata fatta da un’altra nazione, e anche la cucina peruviana ed ecuadoriana c’è l’abbiamo dentro. Perché la gente, gli stuzzichini li fanno dentro casa e li portano giù. E quindi assapori quella cosa che non c’è fuori, chi entra da noi assapora una cosa diversa, che non c’è all’esterno, è qualcosa di diverso, e nel frattempo ti giochi una partita di pingpong, perché lo abbiamo messo noi.



Lo ammetto quando siamo entrati giù era tutto rotto. Noi abbiamo creato questi spazi, sono 3 stanze dove abbiamo messo anche una palestra, e questa palestra è gratuita, chi viene dice “posso utilizzarla ?”, noi diciamo “prego puoi usarla”. Non si va ai piani sopra perché ci sono gli abitanti, ma il piano di sotto è aperto, se chiamo alla porta un vicino di casa e mi dice “ho sentito posso entrare?”, “prego puoi entrare!”, tu mi vuoi conoscere io ti voglio conoscere. È nata una cultura interculturale, e noi siamo venuti in Italia per trasmettere quella cosa che secondo me sta in Marocco, in Perù, ci sta in tutto l’altro mondo (come lo chiamano, il terzo mondo) ma che qua è sparito: quel rapporto umano, quel vicino di casa che non può dormire affamato. Perché se io faccio un piatto di pasta so che quel vicino mio ha o non ha, e il piatto viene diviso. Non esiste che un compagno va a dormire senza un piatto di pasta, perché io lo sento in me, se so che non hai lavoro quando passo dico” tutto a posto?”. So che hai mangiato o che non hai mangiato. C’è quel dialogo aperto, con un compagno che sta insieme a me lottando gomito a gomito.



Enrica Rigo_ Roma Tre.

Lo spazio al piano terra da chi è frequentato? Dalle mamme di Torpignattara?



Khadija Ouahmi_ Tempesta

Le lezioni di arabo erano molto richieste, le ripetizioni anche quelle d’inglese. O ad esempio la mamma che viene ad accompagnare il figlio che gioca al pingpong e lei si prende il caffè, e prende anche il pane, e ci mettiamo a parlare, il pane come lo fatte? E della cultura nostra.



Lucica Constantin_ Metropoliz

Buon giorno a tutti, sono qua per rappresentare la parte dei rom. È un po’difficile capire la parte dei rom. Noi siamo da parte perché ci negavano i diritti dappertutto, e siamo qui tutti per lottare, per i nostri diritti, e anche per gli altri, che vivono insieme a noi in quel posto. Vogliamo fare vedere alle persone che non ci conoscono, che anche noi siamo delle persone, che non siamo senza una vita, che vogliamo andare anche noi avanti. Comunque siamo troppo indietro perché non capivamo tutto, ma vogliamo imparare e chiedere a voi questo aiuto. Diciamo che non siamo tutti intelligenti come gli altri, perché ci hanno negato tutto, ci hanno negato questi diritti, e per questo lottiamo. Anche per il diritto alla casa perché a noi ci viene negato tutto, non ci danno un diritto ad avere un documento, il dottore di famiglia, non c’è l’abbiamo. Questo ci fa lottare ed andare avanti con l’altra gente. Vogliamo lottare soprattutto per la casa, perché noi siamo venuti ultimi in quel posto, e noi vogliamo lottare insieme a tutti quanti che abitavano da prima per la casa. Ringrazio i ragazzi e le ragazze che mi hanno seguito perché mi hanno fatto capire che tutto s’impara, non si prende da solo, che possiamo imparare ancora altre cose. Vi parlo un po’di me ad esempio per farvi capire come vanno le cose. Prima quando sono venuta a Metropoliz non parlavo niente in italiano. Se avevo bisogno di qualcosa rimanevo zitta perché non capivo come esprimermi, come chiedere le cose. E poi sono venuti questi ragazzi che sono qua presenti, Francesca, Grazia, Carla, Osvaldo, che mi hanno dato un grande aiuto, per scrivere, leggere e anche parlare, li ringrazio per queste cose che mi hanno offerto loro, e ancora studiamo in quel posto, ed è una casa, una scuola, tutto per noi.



Non tutti noi pensiamo uguali, una parte è andata avanti per pensare a queste cose, noi abbiamo pazienza anche per gli altri per guardare a noi, e per seguire a noi loro, per questa cosa dobbiamo avere pazienza anche noi, per imparare agli altri uguali.



Ryder_ Porto Fluviale

Mi domando come sarebbe stata l’america senza nessun abitante, sa? Quando il professore ha parlato cosa sarebbe stato vincere un confine per me, per me è vincere il confine è vincere tutti gli ostacoli della vita, tra una nazione e un’altra, fare una sola idea, un solo ideale, una sola meta. E questo per me è vincere un confine, per me è convivere con l’europeo, l’asiatico il sudamericano e parlare una sola lingua, sa? Quando parla di meticci, noi come occupanti conviviamo con tante realtà di differenti nazioni, l’africano ha la lingua araba, noi lo spagnolo, voi l’italiano, l’altro l’inglese. È  difficile imparare tutte queste lingue in un momento, però con il passare del tempo non è necessario aver imparato una stessa lingua, però si impara un linguaggio unico che è la convivenza e il portare avanti, come in questo caso, il diritto ad abitare. Ma non soltanto il diritto ad abitare, ma portare avanti una vita per bene, per tutta la nazione e per tutta la famiglia di ognuno di noi. Io ad esempio arrivato qua ho lasciato il mio bambino piccolo al mio paese, e poi l’ho portato qua quando ho iniziato a lavorare, ho trovato gente per bene qua. La differenza tra di noi è che nei primi tempi eravamo senza documenti, abbiamo dovuto lottare per ottenere i documenti. Abbiamo dovuto lottare con gli affitti perché ci chiedevano i documenti, o prendevano un affitto in nero e ci facevano pagare tanto soltanto perché non avevamo i documenti.

Allora noi dovevamo avere un tetto sulla nostra testa per darlo alla famiglia, poi arrivava il momento in cui noi non ce la facevamo a pagare quello che ci chiedevano, e abbiamo dovuto ricorrere alle occupazioni. Che nei nostri paesi si chiamano “invasioni”, però che nelle nostre nazioni, non terzomondista, un po’ povere in comparazione con il livello d’Europa, non si occupano spazi abbandonati come in questo caso la caserma e tanti altri locali abbandonati, che a me veramente mi fa impatto vedere tanti spazi vuoti abbandonati, quando ci sono tanti bisogni di occupare questi spazi e renderli utili l’indomani. Invece nei nostri paesi si occupano grandi spazi di terra e bisogna lottare con il proprietario e con le autorità, e a volte risultiamo invasori, od occupanti che andiamo a finire al cimitero.

Noi abbiamo reso vivibile un posto come il porto fluviale, e dentro ci sono tante idee grandi, perché ci sono i muratori, gli idraulici, ci aiutiamo gli uni con gli altri per rendere molto vivibile questo posto. Ci sono tanti architetti, ma non perché hanno un titolo, ma perché hanno idee per rendere vivibile questo posto, e dare una vita più onesta a tutti, e pure all’Italia.



Elkebira Adoud_ Porto Fluviale

Io non conoscevo prima cosa era una occupazione. Mi ricordo 7 anni fa, il primo giugno del 2003, che c’era anche la nostra amica Giulia e altri italiani con noi, e mi ricordo una grande paura per entrare dentro questo posto. Perché era la prima volta che lo vedevo, non so se entro, se viene la polizia, perché una cosa che per me è fuori! e allora sono stata li più di una settimana, con il mio bambino, che è un bambino down, con una grande paura. Era un posto pieno di polvere, perché era da tanti anni che era stato chiuso li. Con il tempo è andato tutto bene, però abbiamo fatto tanto lavoro là dentro. Oggi siamo tutti felici perché, sono passata dentro di una prova che non avevo mai pensato. Siamo amici, siamo una famiglia unica, prima mi sento (sentivo) straniera, adesso non mi sento straniera perché sto dentro la casa mia, ho capito tante cose che prima non capivo. Ho cominciato a parlare un po’ la lingua italiana. Sento e non lo so come rispondo. Perché io sono una mamma casalinga, non ho neanche studiato tanto. Nella nostra occupazione, se una mamma sta sotto, guarda tutti i bambini, non è perché questo è il mio, l’altro è dell’altra mamma non m’importa niente. Dei nostri bambini là dentro noi siamo felici,  perché quando ci sono le nostre feste noi pensiamo a tutti, sono nati anche tanti bambini li. Dal 2003 fino adesso il 2011, abbiamo tanti bambini che sono nati li. La bella parola che io sento da questi bambini è “zia”…. È vero che c’è la mamma, ma noi donne che siamo li, anche delle altre nazionalità siamo le “zie”. Allora se il bambino gioca cade e se fa male, mi chiama zia, se ho il pane mi dice zia ho fame, questa è una bella cosa per una mamma.



Roberto Suarez_ Porto Fluviale

Durante il percorso non tutti hanno resistito , perché le regole che ci eravamo date erano dure, per resistere ai conflitti. La cosa importante è manifestare il nostro bisogno per il diritto all’abitare, ma non per rimanere necessariamente cosi, al meno all’inizio. Non solo il fatto di occupare che risolve il tetto sulla testa perché siamo in una situazione disperata iniziale. Ma andiamo a mettere sotto la finestra dell’autorità il problema, per obbligarli a fare la loro funzione, cioè applicare vere e proprie politiche di edilizia pubblica, che da anni in questo paese non si applicano. Da quello si parte, la filosofia iniziale, il pensiero e l’applicazione, poi il percorso che fa ogni occupazione diventa unico, perché il percorso di occupare un posto può avere diverse implicazioni giuridiche del posto, sulla proprietà, sull’interesse o disinteresse che le autorità hanno di ogni posto, il ché gioca a favore del percorso di ogni posto



Khadija Ouahmi_Tempesta

Siamo per il 90 %famiglie sfrattate, lo stato non ci riconosce i diritti per la casa per continuare a pagare, siamo persone, straniere che non ci fanno pagare quello che potremmo, lo stato non ci riconosce i diritti per farlo. Abbiamo pagato tasse, e andato avanti nella vita, nascono i figli e dobbiamo andare avanti, ma se la mia vita migliora non sto la. Sicuramente non abbandono il movimento perché ci credo, lascio il posto a qualcuno che ne ha veramente bisogno, perché c’è tanta gente che ha bisogno. Non per sfruttare, ma se lo Stato mi riconosce i diritti, mi manda la bolletta, io sarò la prima a fare tutto quello che questa società mi chiede per fare una vita normale.

Questo è il percorso delle associazioni, non è che ci prendiamo per la forza tutto.



Roberto Suarez_ Porto Fluviale

Il percorso reale che abbiamo fatto nel quartiere, abbiamo ricuperato quel posto, un’altra cosa che abbiamo pensato, è che quando ci assegnano le case, se ce le assegnano sono lontani dalla città a 30/40 kmt. Mangiandosi la campagna. Se sappiamo che ci sono spazi vuoti nella città, recuperiamoli. A porto fluviale abbiamo pensato questo, per ricuperarlo con il vicinato e fare fronte insieme ad un gioco che sembra molto più grande da noi, pero che si riusciamo a farlo in modo concertato, la nostra proposta è fare un autorecupero li, invece che lasciare fare li l’ennesimo centro commerciale.



Sofia Sebastianelli_ ca7

L’occupazione per noi di ACTION – e penso che lo sia per tutte le occupazioni - è uno strumento di lotta per raggiungere il diritto a la casa, come diceva Roberto. In alcune occupazioni si vive cosi, in altre si sviluppa una progettualità a partire di quello spazio: l’autorecupero nel caso del porto fluviale, per rimanere là, ma non per non pagare e continuare a protrarre quella situazione che tra l’altro è precaria perché c’è sempre uno sgombero che incombe. Ma per modificare quella situazione precaria di occupazione e farla divenire un pezzo di città pubblica. La trattativa è quella di coinvolgere il pubblico per fare acquisire l’immobile cosi che diventa patrimonio immobiliare pubblico, dove le famiglie occupanti vengono riconosciuti come soggetti con diritto alla casa pubblica, che poi corrisponderanno un canone. Al di là della casa popolare che si trasforma da occupazione in presidio popolare, offre servizi alla città, servizi del abitare, la parola “progetto” vuole dire etimologicamente, “proiezione all’esterno”: quando inizia una progettualità all’interno dell’occupazione inizia a pensarsi nel proiettarsi alla città, al quartiere non solo come spazio pubblico ma anche come bene pubblico.



Khadija Ouahmi_ Tempesta

Volevo dire che noi nordafricani usiamo la parola “zia”, perché noi a quelli più grandi portiamo rispetto, quindi a quelli che hanno l’età dei nostri genitori noi gli diciamo “zia”, ma questo vuol dire portare rispetto. Dentro le occupazioni c’è questo rispetto che fuori non c’è più. Le feste sono una cosa molto bella dentro le occupazioni, non esiste natale per i cristiani o la festa dei mufloni per i musulmani, noi abbiamo feste comuni con un grande tavolo con cucina di tutte le etnie, ognuno cucina dentro delle sue tradizioni, e ci mettiamo a tavola bussando a quello che non c’è. È un giorno sociale e di festa. Abbiamo un tavolo lungo che mettiamo e spostiamo ogni volta. Prendiamo le uova di pasqua semplici, ma per tutti, non esiste che un bambino non abbia le uova di pasqua. Lo stesso per i compleanni, per noi tutti i bambini sono uguali. Ci mettiamo lì e dialoghiamo di più, conosciamo il confine di tradizione, cioè parlare fino ad un punto in cui con mio compagno posso arrivare, e dopo mi fermo, perché mi fa piacere conoscere la sua cultura fino a dove mi posso fermare. Fuori tu non puoi parlare, non puoi chiedere. Dentro c’è un dialogo, siamo una piccola comunità, che sappiamo tutto di tutti quanti, ma con il massimo rispetto che noi trasmettiamo dopo all’altro, al vicinato al di fuori, perché fuori quel cancello c’è un altro, un vicino che forse non condivide la nostra vita e lo rispetta e noi rispettiamo questo. Detto questo ringrazio i miei compagni, perché io non sono nata cosi, Khadija che sa lottare. Quando sono venuta in Italia ho avuto una vita normale, ho avuto una bambina splendida, e ad un certo punto di vita ho trovato delle difficoltà per andare avanti. Ho conosciuto Bartolo, Giovanna, Simona, Sofia, Nunzio, Tarzan, che mi hanno insegnato a lottare, ad andare avanti e per ottenere un diritto mio. Vivere in un’occupazione non è del tutto negativo, ma del tutto positivo.



Margherita Pisano_ Porto Fluviale

Quello che ho osservato nelle occupazioni sono diverse soggettività e competenze che si mettono insieme. In quanto al cancello aperto o chiuso, cambia nel momento in cui c’è un contatto quotidiano. Non basta che sia aperto. Nel nostro vivere quotidiano, con percorsi-casa lavoro è difficile che le persone entrano. Poi mi chiedo anche se il portone di casa nostra è aperto. Se le occupazioni hanno questo cancello aperto è perché le persone che abitano nell’occupazione hanno una dinamica di vita di conoscersi e condividere spazi di socialità, è perché hanno delle progettualità, quando le persone nel percorso maturano di volersi proiettare all’esterno, è perché riconoscono questa voglia e vogliono portarla avanti.



Adriana Goni Mazzitelli_ Roma Tre

Sentendovi parlare vorrei capire se ci sono altri posti fuori delle occupazioni che vi accolgono nella città? Avete il tempo con la quantità di energia che investite dentro per costruire questa comunità, di costruirvi o trovare dei posti fuori nei vostri quartieri che vi accolgono?.



Khadija Ouahmi_ Tempesta

Nel nostro quartiere, noi abbiamo fatto un volantino per fare capire a tutti chi eravamo. La gente ci fermava e ci chiedeva, mano a mano ci conosceva. Non tutti ci hanno accettato, è la loro libertà di scelta. Ma un giorno siamo stati invitati ad una manifestazione contro la costruzione di un palazzo dove la gente voleva mettere uno spazio per i bambini. Ci hanno invitato ad essere in quella piazza per i bambini, ci ha fatto molto piacere che fossimo riconosciuti come un simbolo di lotta per avere quel posto, siamo riusciti, perché siamo scesi insieme alla gente, quello spazio adesso è stato guadagnato per i bambini. Si chiama, Quiebraley, centro a Torpignattara.



Poi insieme alla ex-snia, abbiamo invitato i bambini del quartiere per il carnevale, andavamo in giro con i bambini dentro e fuori per dimostrare che sono tutti uguali, hanno il diritto di vivere normali. Abbiamo avuto una grande risposta, portato anche questo carnevale in altri posti e siamo stati orgogliosi. Altri posti, come quello che abbiamo noi, mi dispiace dirlo ma non ci stanno. È questo che la città oggi ha bisogno, mi auguro, non dico che portiamo una cosa che dobbiamo fare imparare, ci impariamo insieme, noi diamo una cosa, la città deve dare un’altra e  costruiamo una società normale.



Sofia Sebastianelli_ ca7

Noi siamo andati a trovarceli da soli, abbiamo costruito una rete di associazioni, occupato un terreno, e costruito un orto urbano, gli orti urbani di Garbatella. Abbiamo 15 lotti assegnati per 4 anni, ogni 4 anni si assegnano, abbiamo messo noi l’acqua. Le famiglie di Garbatella lavorano tutti i giorni, ci siamo allargati perché abbiamo creato un bosco e più appezzamenti, c’è un’assemblea del gruppo di assegnatari che partecipa nelle assemblee degli orti urbani.

Costruire i beni pubblici, offrire, donare è una forma di legittimazione delle occupazioni, una forma diversa da quelle degli anni 70. Non più il diritto alla casa, ma all’abitare, che è più complesso non è solo abitare una casa ma la città. Nelle casette facciamo il cinema, anche una osteria, musica dal vivo. L’occupazione delle casette nasce nel 2003, 8 anni fa, con un progetto che si chiama nodo sperimentale per un abitare sostenibile, sperimentando energie rinnovabili, con il quale ci siamo aperti al territorio.



Lucica Constantin_ Metropoliz

Alcuni spazi fuori ci sono, ed anche delle persone che fanno delle cose e ti fanno stare in contatto con il pubblico. Metropoliz non è in mezzo alla città, è un po’ fuori, non è in mezzo alla gente, facciamo un po’ di strada per arrivare dove possiamo incontrare e conoscere meglio le persone. Io sento che sono in contatto con la gente perché vado a una università (scuola d’italiano), e l^ mi incontro bene, ho un dialogo con tutti, siamo tutti diversi, perché io sono rom, ma non mi devo mettere in fila con i rom per imparare qualcosa, o con gli italiani. Lì siamo marocchini, del africa,  filippine, ci incontriamo e c’è un dialogo con tutti. Anche vicino a dove abitiamo, Metropoliz, ci siamo incontrati bene con Tor Sapienza. Era la prima volta che abbiamo festeggiato il carnevale insieme, ci siamo incontrati bene con la gente di questa zona. Siamo contenti con la gente che sta in questa zona, ci hanno dato l’opportunità di  festeggiare questo giorno con i bambini, anche con gli adulti e con i giovani, li ringraziamo di questa cosa, come lo hanno portato avanti. Vicino a noi a Tor Sapienza, c’è un mercato dove facciamo la spessa ogni giorno. Alcuni di noi  fanno delle cose brutte, rubano, e quindi a noi non ci facevano entrare. Prima quando entravo nel mercato facevano inseguirmi da una persona, adesso non è più cosi entro come se fosse casa mia. Se parli bene prendono rispetto di te, quello che dai, prendi.





Irene Di Noto_ Metropoliz

L’idea di occupare Metropoliz nel 2009, era quella d’impattare in un pezzo della città, uno spazio di 3 ettari, la ex-fabbrica fiorucci a via prenestina 913, che dopo essere trasferita negli anni 70’ a Pomezia, era stata abbandonata. Noi per ragionare sull’idea della città, prima di Veltroni e dopo di Alemanno che sono in perfetta continuità, abbiamo deciso di insediarci in quell’area provando a sottrarre suolo alla speculazione. Anche perché con la legge regionale che sta andando in approvazione potrebbe  avvenire il meccanismo che loro chiamano di valorizzazione, di cambio della destinazione d’uso, con un aumento della cubatura del 30%, con guadagni al proprietario Salini, che è il secondo General Constructor italiano, costruisce infrastrutture. Noi non vogliamo andare fuori dalla città, non vogliamo altro cemento, c’è un pezzo di città da recuperare, e lo possiamo fare noi, ponendoci dentro il raccordo. Perché le persone come noi, precari, immigranti e italiani, esclusi, l’ultimi, non si possono permettere il diritto di cittadinanza all’interno dei raccordo, come i rom, che sono stati espulsi della città. Il meccanismo è stato quello di opporsi al disegno della città fatta a misura dei costruttori e non dei cittadini e delle cittadine. E da lì abbiamo iniziato a valorizzare quel posto, pensiamo che lo abbiamo valorizzato perché ogni persona che sta li dentro è riuscita con molta fatica e dignità a recuperare gli spazi vitali e costruirsi in maniera molto dignitosa una casa. Abbiamo chiaramente all’interno una realtà molto complessa, come tutte le occupazioni, di un 80% di immigranti. E abbiamo anche la particolarità di avere una comunità rom, che ha iniziato questo percorso di contaminazione che abbiamo ribattezzato la città meticcia.

E dietro il termine di città meticcia è una idea in divenire, perché vorremo davvero costruire quella città che ci immaginiamo, fatta di spazi pubblici, una città accogliente dove viene rifiutato il razzismo, e tute le cose che avvengono fuori a partire dal livello istituzionale.



I confini ci sono, non sono fisici quanto culturali. Questa mescolanza di varie culture e realtà è stata difficile da affrontare, soprattutto quando sono arrivati i rom, che arrivavano da una esperienza differente, da un campo che era uno spazio permeabile, attraversabile, e purtroppo che veniva attraversato soprattutto in negativo dai vigili che li minacciavano. Quando sono arrivati a Metropoliz la prima discussione è stata che bisognava tenere il cancello chiuso, che bisognava fare il picchetto per difendersi dall’esterno, non per isolarsi dall’esterno, per creare un meccanismo di difesa ed evitare che succedesse quello che succedeva nel campo, che la polizia i carabinieri, o chiunque voleva prendersela con i più deboli potesse andare là e minacciare insultare, ecc. Da altra parte abbiamo sperimentato nel tempo il diverso trattamento che i rom subiscono, un anno fa per l’allacciamento alla luce (non è mai accaduto da nessuna parte che per un allacciamento alla luce i carabinieri ti portassero via) invece sette rom sono stati portati dentro. Idem varie questioni che riguardano  il vicinato, e anche quello interno, la cultura, i rom prendono il fuoco e sono abituati a farlo per stare insieme. Questo è un tratto culturale. Ognuno si è scelto il posto e si è costruito la casa, perche lo spazio è grande, ma ci sono delle cose che vanno negoziate, altrimenti alcuni si infastidiscono per il fuoco, per il fumo degli altri.

Va negoziato perché esistono i confini culturali, però che per fortuna vengono rinegoziati, elaborati e si continua ad andare avanti, perché si è tutti consapevoli che è stato questo meccanismo relazionale che ha consentito a Metropoliz finora di mantenersi tutti insieme, al di là del ruolo dei movimenti per il diritto al abitare nei termini di pressione di fronte al comune. Ultimamente abbiamo strappato una delibera al comune, per noi è una vittoria molto importante perché è stato riconosciuto a 33 nuclei rom stare all’interno di una delibera, insieme agli italiani, i marocchini.

La delibera 205, che riconosce alle persone che hanno occupato dal 2006 il diritto ad una casa, che prima o poi avranno una casa.



Guendalina Curi_ Metropoliz

È molto importante perché mentre le persone che sono nelle occupazioni sono stati sfrattati, ai rom difficilmente gli danno in affitto una casa. Neanche ufficialmente potrebbero aspirare ad avere il diritto alla casa, perché ci vogliono i 10 punti dello sfratto per aspirare ad una casa popolare. I rom, non avendo avuto mai una casa non possono aspirare ad averla, di là l’importanza.



Irene Di Noto_ Metropoliz

Noi non ci illudiamo che ci daranno tutte queste case, quindi continueremo a lottare là dentro per le case popolari. Vogliamo rimanere dentro di Metropoliz, perché c’è una progettualità che va ben oltre l’aver dato un tetto sulla testa a 100 nuclei famigliari. Quello che è avvenuto a Metropoliz è creare un meccanismo di spazio pubblico all’interno di Metropoliz. Si negoziano non solo i classici meccanismi di convivenza come quelli di un condominio, ma anche i meccanismi culturali. Questo sta generando delle cose interessanti, ad esempio che questa comunità non sia ghettizzante, che le donne romni si confrontano con altri, che significa che ad esempio tra i rom, alcuni dicono “io non voglio che mia figlia si spossi ai 13 anni ma che continua a studiare, finisce la terza media voglio darli altre possibilità”, questo non è una cosa scontata ma vivendo in mezzo agli altri si possono scardinare questi meccanismi. Per quanto riguarda la progettualità, dopo esserci organizzati all’interno, ci siamo preoccupati di metterci in contatto con altri, oltre a noi, perché questa sfida della città meticcia, Questo laboratorio che abbiamo messo in piedi necessità di tante idee e tante energie, soprattutto perché per noi si deve restituire questo spazio al territorio e alla città. Al territorio in primis, perché quello un tempo era la fabbrica Fiorucci, e tutti gli operai della Fiorucci abitavano a Tor Sapienza, per cui fondamentalmente la Fiorucci era un po’ la piazza di Tor Sapienza. Siamo andati a cercare le associazioni del territorio, alla ricerca di altri per chiedergli di entrare a Metropoliz e immaginare insieme come si potrebbero creare dei ponti con il territorio, e una progettualità insieme, questo spazio deve ritornare al territorio.

La forma di organizzazione è quella di una assemblea una volta a settimana, ci sono anche dei sottogruppi, qualcuno che è interessato al recupero, chi lavora sulla ludoteca, sul corso di lingue, la costruzione del campo di calcio, il meccanismo decisionale è collettivo, quindi è Metropoliz che decide che una cosa va fatta o non va fatta.



Giulia Bucalossi_ San Michele

Sono una occupante prima del Ex Cinodromo, oggi ACROBAX, uno spazio che molti possono identificare con un centro sociale, ma da subito si poneva un problema abitativo, perché eravamo molti studenti con una situazione precaria abitativa e abbiamo dato luogo a una comunità abitativa. Ma gli anni passano e il comunitarismo che si vive in quella occupazione giovanile che è un momento nell’arco della vita è passata e sono andata in un'altra occupazione del movimento Lotta per la Casa, più tradizionale, con le famiglie, interculturale, nello spazio dietro la ex-fiera di Roma, nella Cristoforo Colombo. Il San Michele era il luogo dove nei primi due mesi che noi aprivamo una battaglia, scoppiava lo scandalo di Lady ASL. Una tipa che con 108 tra funzionari delle ASL e funzionari regionali, ha messo su una delle più grandi organizzazioni criminali legata alla sottrazione di fondi pubblici della sanità e faceva finta che ci fossero dei posti letto specializzati, reparti post coma, ecc, nelle palazzine del ivav, racimolando circa 80 milioni di euro là dove i palazzi erano chiusi. Abbiamo occupato una prima volta e siamo stati sgombrati, abbiamo fatto una tendopoli di 3 mesi là fuori, siamo riusciti ad entrare in un palazzo e poi in un altro palazzo.

Per capirci il primo palazzo era un ex-istituto artistico e quindi stava come stanno tutte le scuole chiuse da qualche anno, con grande potenzialità, dalle aule, ai i servizi comuni. Quindi dal punto di vista architettonico si lavora bene per le famiglie, con un gran parco intorno, con la palestra sotto, che è stata occupata come sede da una serie di associazioni di teatro, che adesso sono il teatro de Merode. Che dal inizio hanno fatto uno spettacolo per il quartiere rappresentando la storia del occupazione che mischiava attori con occupanti che facevano la parte del presidente della regione piuttosto che altri interlocutori. Adesso il teatro de Merode sono una decina di compagnie.

Mentre che il secondo palazzo occupato era una di queste cliniche fantasma ristrutturata per il giubileo, quindi a differenza di altre occupazioni che quando entri sono piene di polvere, li c’era il bagno in camera, acqua calda centralizzata, doppi vetri, i letti che si alzavano e abbassavano. Abbiamo fatto una divisione dello spazio che andava a tutelare i soggetti più deboli, quelli senza reddito, anziani che hanno più difficoltà a fare i lavori, famiglie con bambini più piccoli. La divisione è stata fatta così, sono stati messi nella clinica dove già era praticamente tutto fatto, e quelli più giovani o in grado di farsi i lavori, nella scuola. Questo per dire che le occupazioni hanno tutte una storia a sé, e che la comunità si forma anche in modo permeabile in funzione al luogo che occupi. Ci sono palazzi in centro, grandi spazi in periferia… le cose si costruiscono in un processo che appunto è vivo, che si nutre anche con le associazioni del territorio e con tutti quelli che decidono di oltrepassare quel muro che può essere il cancello, o quello che è il concetto di legalità.



Perche anche quello è un passaggio culturale importante. Se uno si chiude nel legalismo a oltranza e non riconosce che ce un corpo vivo delle trasformazioni e non riconosce che lo spazio pubblico è uno spazio che politicamente va difeso perché è uno spazio attaccato. Io penso che da lavoratrice autonoma, partita iva, ecc, alla diffusione del co-working, che è una riproduzione a livello immateriale della catena di montaggio. Questo è uno spazio pubblico che mette in comune i servizi facendo un feticcio dello spazio in comune, il grafico si incontra con il video-maker, con il blogger e fa parte di quella costruzione immateriale. Spazio comune invece a spazio pubblico, al di la dell’ontologia del privato pubblico e della proprietà, il modo in cui si vive quello spazio è il modo in cui gli si dà importanza.



Il concetto di autorecupero - in tutti i giornali un po’ fashion e di moda si parla del co-housing - c’è perché è evidente che nel abitare c’è una dimensione centrale che la gente è disposta a pagare e a pagare molto, perché c’è una dimensione da recuperare che non è chiaramente quella del alveare e la chiave di tripla mandata alla porta blindata. Ma è recuperare lo spazio comune, dove fare giocare i bambini insieme. I bambini non si possono tenere negli appartamenti, impazziscono, e fanno impazzire le mamme che li tengono. Ma quanto si risparmia con le lavatrici in comune, non serve che ognuno di noi abbia una lavatrice dentro casa… insomma tante tante cose. Quel modello, che ormai è un modello di nicchia perché è tanto costoso, in realtà se lo sono inventati i movimenti di lotta per la casa. Tanti anni fa, quando cominciarono a dire che le case popolari sono poche, che ce le danno in comuni fuori Roma o in estreme periferie dove creano ghetti di disaggio, dove gli unici spazi pubblici sono le strade e dobbiamo mandare i nostri figli e ragazzi… Noi non ci muoviamo di qua, pensiamo che autorecuperare uno spazio sia un contributo fondamentale sotto mille aspetti. Dal punto di vista del riuso del patrimonio alla riqualificazione della città. Dopo 10 anni di una legge regionale che ha solo il Lazio, nel 2008 e 2009 si sono prodotti 3 casi di auto-ricupero dove la gente è andata a vivere. Abbiamo 10 progetti di autorecupero, Porto Fluviale è una caserma che può diventare decine e decine di progetti, alloggi sociali, spazi pubblici. Che cosa può andare in quelle saracinesche sotto quello stupendo palazzo di cemento armato? Ci possono andare asili nido, biblioteche, spazi culturali, ristoranti popolari con cucine etniche. Un processo di autorecupero per uno spazio pubblico, che rimarrà pubblico, perché quel processo è disgustoso svenderanno le caserme che sono patrimonio pubblico. Loro dicono “voi ci date le caserme e noi vi diamo l’invenduto”, quelle 40.000 case che ci siamo ostinati a costruire dopo il raccordo anulare nel agro romano. Voi ci date le caserme, voi ci mandate la gente del porto fluviale, che non hanno la macchina, e noi lì ci facciamo gli uffici per gli avvocati, le case di lusso e i centri commerciali.



Un metro quadro ristrutturato in autorecupero costa 1000 euro, di qui 600 li paga il ricuperante con un mutuo stipulato con la cooperativa, perché ovviamente gli autorecuperanti non hanno accesso al credito e si organizza in cooperative, e 400 il comune e o/ la struttura pubblica proprietaria del immobile. A fronte del fatto che oggi l’unico piano di acquisto per case popolari del Comune di Roma, è quello di Rocca Cencia, sempre invenduto vicino ad una discarica, e costa 3000 euro il metro quadro, e tra l’altro neanche gli hanno fatto passare il finanziamento.



Quindi per noi di Lotta per la Casa, l’autorecupero è una prospettiva vitale perché le case popolari non le fanno più, e adesso nelle riviste di Glamour si parla di social housing, che non si capisce cosa è, a chi vada assegnato, con quali bandi, e quale fondazioni bancarie hanno un torna conto a riprendersi dopo un investimento di un milione di euro dopo 30 anni, palazzi di chi sa quale valore. Mentre appunto, l’autorecupero costa molto meno, è immediatamente solidale, produce la possibilità di disegnarsi da sé lo spazio dove si va a vivere, in uno spazio che non deve essere di lusso, perché la convivenza, la coabitazione, la condivisione degli spazi comuni, la solidarietà, la crescita personale fanno capire che non è con i CIE o con i CPT e con i centri di accoglienza temporanee, che si crea una prospettiva di integrazione. È chiaro che lo spazio pubblico è l’unica risposta alle politiche securitarie.



Nicola Marcucci_ Associazione Michele Testa di Tor Sapienza

Io provengo dalle sezioni operaie di Tor Sapienza, della Terza Fabbrica Operaia di Roma, la Voxon, sono anche un esperto di storia locale e presidente del Associazione Michele Testa. Quindi rappresento una continuità culturale. Ogni occasione è buona per fare da ponte. Abbiamo fatto come quartiere un carnevale con il quartiere e con loro (gli abitanti di Metropoliz), anche una befana, e faremo altro. Ovviamente voglio continuare questa esperienza perché due comunità, o due territori limitrofi, possono diventare una sola. Propongo di fare sottoscrivere una petizione popolare per acquisire l’area Fiorucci, al territorio di Tor Sapienza, come area da completare con i servizi di quartiere, dove fare progetti comuni. Ad esempio la Città Meticcia potrebbe istituire laboratori a servizio dello sviluppo locale. A Tor Sapienza ci sono due comunità: quella parrocchiale, fatta da 20 comunità che raduna tante persone, e l’agenzia di sviluppo locale, che raduna 20 associazioni. Sviluppo locale per noi significa progettare una Tor Sapienza diversa che includa tutta la comunità. Noi vorremo offrire dei servizi culturali a Metropoliz, ma non solo da portare dentro la città meticcia quanto di offrirli e ospitarli nel nostro luogo.



Irene di Noto_ Metropoliz

In questi giorni stiamo lavorando sul progetto “mediterraneo anti-razzista”. È nato a Palermo, per i ragazzi abbandonati nelle periferie dove non c’è nulla, solo strade e cemento, per portare colori, palloni, e un po’di vita. Quest’anno abbiamo portato il mediterraneo anti-razzista a Metropoliz, street ball a Tor Sapienza, con palloni, bloccando le strade con i bambini per coinvolgere il territori. Abbiamo avuto varie adesioni, squadre di rifugiati, la sera suoneranno gruppi di rave che sono nati in centri sociali, che portano avanti in termini culturali i nostri stessi percorsi, come il laboratorio di origami a cura di Space Metropoliz, insomma un modo di stare insieme non agonistico ma d’incontro, di vivere lo sport senza essere un momento competitivo.



Carlo Gori_ Associazione Tor Sapienza in Arte

Metropoliz dà spazio pubblico di fatto, da una occupazione diventa uno spazio privato, con una nuova identità fatta dalle persone che lo vanno ad occupare. È una nuova città uno spazio occupato con queste etnie diverse, sarà veramente parte della città quando la città abbasserà i propri muri. E diventerà città nuova quando queste identità diverse non saranno tanto importanti e potranno circolare le persone liberamente, altrimenti è un fortino. È chiaro che Metropoliz è una città occupata e quindi per adesso è molto un fortino. L’identità che ha non è ancora ideale, ma se la sta costruendo. La parte fuori, credo che sia da questo punto di vista la più importante. Un ragazzo peruviano mi diceva, quando ci sono le feste che organizziamo con voi di fuori vedete i rom in giro, altrimenti non li vedete perché ci siamo litigate con loro. A questo punto serviamo, dal punto di vista pratico, per aiutare a rompere e ad aiutare a mischiare le persone dentro questa città,  ma lo sarà veramente quando si mischierà anche con il fuori e diventerà veramente una città integrata, anche a costo di contaminare la propria idea di base.



Piero Vereni_ Tor Vergata

Volevo riprendere il tema del passaggio dal domestico all’urbano. Credo che nella discussione è tornata sempre la casa perché la casa è un fattore fondamentale.  Io proporrei un passaggio intermedio, quello del vicinato, perché alcuni concetti sono troppo astratti come territorio, o spazio che non hanno persone, il vicinato invece è fatto di persone vere. Il vicinato fatto di zie, ma anche di persone che ci stanno sulle scatole, con le quali fai fatica a relazionarti, ma con cui ti devi relazionare. Le occupazioni oggi hanno il ruolo di fare coscienza politica di essere città meticcia. Ma Roma lo è da sempre perchè i ragazzini calabresi del film di Non Tacere erano trattati esattamente come i ragazzini rom, la percezione che fossero altro era quella che si ha oggi di un peruviano o un rumeno. La differenza oggi è che non è mimetizzabile. Quindi ben venga la consapevolezza di essa. Il punto forte è il diritto al progetto delle occupazioni, sia mettersi sul tavolo e sia buttarsi fuori, uscire dalla sfera domestica. Ma le occupazioni sono nate con questa idea, di uscire dal livello domestico della famiglia nucleare, papà mamma e figlio, bloccati là dentro con tre mandate, non sai neanche chi sia il vicino. E capire che la differenza sta nella porta accanto e vale la pena, non solo per gli altri ma anche per te conoscerlo. Lo spazio comune può essere ri-pensato come vicinato, una modalità che può sembrare una vecchia categoria perché si può pensare che è una dinamica di paese, una dinamica extra-urbana, ma il vicinato è una cosa diversa, non è il quartiere, non ha confini definiti amministrativamente, il vicinato i confini se li fa da soli, succedono i confini. Chi sono i tuoi vicini? Sono tutti quelli con cui interagisci quotidianamente, dove finisce? È una rete continua.



Nick Dines_ Master Politiche dell’Incontro e Mediazione Culturale

Noi partiamo in questa sessione, dallo spazio del abitare per arrivare allo spazio pubblico. Quando nelle altre sessioni si parla dello spazio pubblico anche come luogo di costruzione architettonica. Penso che qui si parla anche del diritto alla città,  lotte per l’abitare, quando c’è una lotta per il diritto ad uno spazio, non vorrei usare privato, ma direi intimo. Perché lo spazio pubblico si costruisce anche in relazione alla sfera domestica, dove ti puoi rifugiare, non si può sempre stare in uno spazio pubblico. A volte uno spazio pubblico è anche uno spazio del anonimato, quando non si ha la possibilità in una casa di avere quella privacy, uno va a cercare quella possibilità. Lo spazio pubblico non è sempre uno spazio d’incontro.



Un altro tema è lo spazio pubblico interculturale, può essere una trappola che l’idea dell’interculturalità è solo etnica. Lo spazio pubblico è di per sé sempre interculturale, perché ogni definizione dello spazio pubblico è culturale, e si vede da diverse generazioni. Io ho lavorato nella zona est di Londra, dove vogliono fare le olimpiadi l’anno prossimo, che è una delle zone più interculturali di Europa, se non del mondo. Lì ci sono forti conflitti, che sono gestiti ma di cui tutti vanno abbastanza consapevoli. Non tra indigeni e le varie comunità, ma tra generazioni di pakistani. L’idea di strada per una signora pakistana di prima generazione è molto diversa da quella di un giovane teenager di quarta generazione. A Roma stiamo vivendo adesso anche questo tema delle seconde e terze generazioni.



Enrica Rigo_ Roma Tre

Mi viene da pensare Spazio Pubblico e Democrazia. La democrazia moderna nasce come democrazia economica, il sistema per il quale tutti votano nello stesso modo, nasce nelle compagnie delle indie, lì si vota a seconda delle quote societarie, è la democrazia proprietaria per cui ognuno è uguale in quanto può diventare proprietario. Qui rifletto sulle occupazioni, come si diceva prima che succede diventiamo proprietari e costruiamo un fortino intorno ad una proprietà? Non sarebbe meglio chiamarli “movimenti di liberazione degli spazi”, per provare ad immaginare un modello di democrazia che sia veramente sovversivo a questo modello proprietario. Diverso a quello che conosciamo, che sia un modello comune che esca dalla dicotomia del pubblico e privato. Un'altra cosa che mi fa riflettere è che questa mattina è stata esclusa anche la parola “conflitto”. È stato sempre rappresentato come un conflitto all’esterno, con il quartiere, con le istituzione, ma mai dentro. Un poco mi preoccupa questa autorappresentazione cosi pacificata, perché veramente forse è questo che rischia un po’ di chiudere e di ghettizzare.



Adriana Goni Mazzitelli_ Roma Tre

Ho notato  anch’io, come Enrica, che le parole chiave che sono uscite oggi, sono uscite molto in positivo. In più avevano una energia particolare, molta freschezza, quello che avete trovato in queste occupazioni e che ci avete riportato, nonostante tutte le difficoltà, è un insieme di fatti positivi. Le parole chiave o frasi che avete ripetuto più volte sono “Io sto imparando”, “cambiando”, “mutando”, in questi luoghi si può “assaporare le comunità”, “famiglie allargate”. La scuola d’italiano come università, mi è piaciuta molto perché anche noi abbiamo quest’idea di una università universale che dovrebbe arrivare a tutti quando serve. Inoltre avete parlato di vincere il confine, rispetto, la piazza pubblica di cui voi vi state occupando, per restituire gli spazi. Questo lo dico come un contributo anche latinoamericano, stiamo parlando di persone che sono state sradicate e hanno subito un trauma, hanno avuto un periodo di 11 anni di assestamento, e che adesso che si trovano in una comunità si trovano ad avere una nuova voce. Come ha detto Khadija le ha fatto piacere che le associazioni li chiamassero in quel quartiere per dire la loro parola. Adesso siete più forti perché avete fatto un percorso, vi siete dotati di qualche strumento in più, come imparare la lingua, e volete avere una autorappresentanza. Questo che diceva Roberto di “contare nella città”, nel governo della città, però loro stanno costruendo una forma di democrazia diversa, molto diversa da quella attuale, anche per questo c’è il grande conflitto con l’esterno, bisognerà capire quanto fuori trovano un muro o dei ponti che gli permettano lavorare. Per la prima volta loro come occupazioni, hanno una voce come città meticcia, che non sono quelle delle occupazioni degli anni 70. Questa nuova voce ha una forza culturale molto importante, che ancora si sta riscoprendo in un divenire. Loro riconoscono dei pari, questo è nuovo, una specie di riconoscimento di classe, sono diversi agli italiani, che stanno fuori. Il tema qui è quanto loro riusciranno a non rientrare dentro la rappresentanza tradizionale, ad avere un consigliere politico. Bisogna capire quanto riescono ad andare avanti con questa loro modalità più fresca, con questa innovazione culturale di proposta di nuove comunità, bisogna capire quanto di questo riusciranno a contaminare loro nel fuori.



Andrea Valentini_ Metropoliz

Io ho studiato architettura e mentre imparavo le tecniche di progettazione, mi è rimasto impresso che un famoso urbanista quando le hanno chiesto qual era il suo piano per la città, lui ha detto io “progetto per la vita”. Quando abbiamo occupato mi sono chiesto, quando questo progettista dice questa cosa, prima fa il progetto e dopo ci fa vivere le persone? Invece quando noi abbiamo occupato qui è stata la vita che c’era dentro a progettare e costruire gli spazi per i propri bisogni. Ho fato altre occupazioni in Olanda e in Spagna, ma Metropoliz è nato attraverso un atto performativo, attraverso la vita, in fatti in Olanda gli occupanti non vengono chiamati occupanti ma “crackers” perché rompono il confine. Poi costruisci, ma tu lo hai fatto rompendo una cosa congelata, attraverso un “crack”. È come se tu facessi l’architettura più veloce del mondo. Immediatamente produci uno spazio che prima non c’era.

A noi Metropoliz ci si presentava come un bosco, quindi se ti serviva fare il bagno a casa, andavi là prendevi un tubo e te lo portavi. La bravura è stata quella di fare un tubo lungo, più di 100 metri , con una grande pressione che arriva fino al secondo piano. Io che stavo facendo l’architetto, ho detto bisogna fare un progetto per coordinare queste cose ma anche per far capire alle persone dove stanno, siamo sbarcati e non sapevamo quanto era profondo il fosso… Quindi ho iniziato a fare una mappa che è una visione d’insieme, con lo scopo di rimanere li.



Roberto Suarez_ Porto Fluviale

Per tornare al tema della Democrazia noi non vogliamo, dopo una o due generazioni, fare politica e arrivare ai vertici. Per noi la democrazia nel quotidiano significa “migliorare la qualità della vita”. Nonostante sembrano gesta eroiche dette con linguaggi utopici, per noi sono realtà. Noi proponiamo un’alternativa ai centri commerciali, proponiamo i beni comuni, con uno striscione rivolto al quartiere per l’acqua pubblica, anti nucleare. Se noi iniziamo a rivolgere al quartiere queste azioni, che nessuno lì fa, perché sono interpretate come molto romantiche o utopiche, ma si possono fare.



Guendalina Curi_ Metropoliz

Volevo aggiungere che per noi la presenza del gruppo rom a Metropoliz è importante perché vogliamo che ci sia anche un’alternativa ai modelli di associazioni assistenzialiste ai rom, quindi noi promuoviamo l’auto- organizzazione e auto-rappresentanza. Che i genitori portano ai bimbi a scuola e non solo noi. Alcuni fatti come l’occupazione della basilica di San Paolo a Pasqua e altre battaglie per il diritto alla casa che loro in prima persona stanno facendo, questo ha una grande potenzialità.



Irene di Noto_ Metropoliz

L’entusiasmo di raccontare le occupazioni, questa positività, vuole dire che chi va ad occupare lo fa assolutamente per necessità, non per curiosità, ma sono persone che hanno trovato all’interno di quella comunità la possibilità di non finire per strada, fuori il raccordo. Però grazie a questo percorso non vivo più il mio problema in solitudine. La mia alternativa è organizzarmi con altri. Lo spazio pubblico che produce una occupazione è uno spazio di conflitto, ma anche di diritto e di produzione. Dopo che hai il tetto la battaglia non è finita, perché viviamo in una situazione in cui ci viene negato il welfare e non solo agli stranieri ma anche agli italiani, quindi facciamo le battaglie per i parchi, ecc. Le occupazioni sono spazi di produzione di conflitto per guadagnare spazi di cittadinanza.



Sofia Sebastianelli_ ca7

L’occupazione è anche democrazia, questa cosa non è uscita perché forse lo diamo per scontato. È una palestra di democrazia, perché tende a questo confronto tra interno e esterno. Le occupazioni riprendono un tratto della prossimità, perché riprendono la specialità delle relazioni. Le occupazioni attendono la formazione di un gruppo. Prima che tu vada a occupare, si forma un gruppo, che può durare anche un anno. Se vuole essere un pezzo di città pubblica non può non aprirsi a tutto quello che si muove nel territorio. Hanna Arendt, in “ un mondo di cose in comune”, parla di riconquistare la cura e la gestione di quelle cose in comune, e noi ci diamo delle regole per rispettarle, la democrazia tratta di regole.

Enrica Rigo_ Roma Tre

Democrazia ha una ambiguità, un qualcuno che ci comanda e ci fa credere che siamo tutti uguali. Ma quello che volevo dire io è che democrazia vuole dire conflitto, perché non abbiamo bisogno della democrazia per andare tutti d’accordo, non è consenso, quello è quello che ci propinano.

Dissenso e  conflitto è la democrazia, a me mi sembrava che il conflitto si rappresentasse all’esterno con la città e le istituzioni, ma quando è con la città come diceva Carlo, è un conflitto interno, non esterno.

Khadija Ouahmi_ Tempesta

A Tempesta abbiamo lo sportello sfrattati dalle 10 a mezzogiorno, dove anche il quartiere viene da noi, abbiamo tanti sfrattati nel quartiere e studiamo la loro storia, perché noi non vogliamo la gente per la strada. Quindi lottiamo con loro, soprattutto gli anziani, che dopo 30 anni vengono da noi perché il governo dice se vuoi ti mando ad una casa di riposo, pero per una persona anziana che perde tutti gli affetti personali che ha in quella casetta . ad esempio mi ha colpito particolarmente una persona di 90 anni che la mandavano ad una casa di riposo, ma non puoi (stato) aspettare un po’, che questa persona non sa quanto vivrà. Quindi noi facciamo anche il picchetto antisfratto, aiutiamo al vicinato a non uscire di quella casa in quel momento finché il comune non li trova una soluzione. Questo fa parte in andare d’accordo con il vicinato, perché li facciamo toccare al vicinato quello che abbiamo passato noi.  



Giorgio de Finis e Fabrizio Boni_ Progetto Space Metropoliz

Noi vogliamo contrapporci al razzismo con una proposta razzista , perché vogliamo costruire un grande razzo che va alla luna,  e la luna è il più grande spazio pubblico secondo i trattati internazionali. Ispirandoci al cortometraggio di Melies del 1902, il Viaggio alla Luna, raccontare Metropoliz. Volevamo trovare una chiave per fare un documentario diverso che la mera collezione di storie di vita, e quindi ci siamo imbarcati in questa idea di qualcosa di assurdo, di sognare, che ci portasse su un terreno comune per raccontare la loro vita e ragionare insieme, in forma comune. Parafrasando quello che dicevano gli ufologi radicali “La Luna al popolo”.


Conclusioni

Maria Vittoria Tessitore_ Roma Tre

La città meticcia, se non è meticcia non è città. Roma è meticcia, come diceva Vereni,  dall’antichità. Avvicinare la parola città alla parola civiltà, mi fa pensare dopo questo incontro, che la civiltà può venire solo dal meticciato. Bisogna ripartire dalle relazioni tra le persone, dove i conflitti non si appianano, ma si agiscono i conflitti. Il passaggio dinamico e dialettico verso una legittimazione, questo è un elemento nuovo diverso alle occupazioni degli anni 80’. Ha molto da vedere con la faccenda stessa dell’emigrare, sia a livello intimo come diceva Nick, che a livello di comunità per assestarsi. Vorrei citare la frase che ha detto l’amica rom, “non siamo intelligenti perché non abbiamo i diritti”, naturalmente è terribile pensare non essere intelligenti, perché uno è intelligente con la propria storia a prescindere. Pero effettivamente se non hai il diritto alla parola… Il ragazzo dell’altra occupazione diceva “io sono alla ricerca del linguaggio comune”, ma questo rompe il feticcio della interculturalità, io sono seccata della mediazione culturale, mediazione culturale è quello che fate voi. Non è importante solo la festa, “io porto la cultura mia, tu la tua e con quello si fa il cous cous, con le carne tue, le spezie mie”, invece la cosa importante è il meticciato, che non è solo un passaggio ma diventa strutturale.



L’altra cosa che volevo dirvi è un pericolo, il pericolo della riserva indiana, quando è stato posta la domanda da Adriana, come sentiamo lo spazio pubblico al di fuori delle nostre situazioni al interno dei nostri progetti. Quando Sofia ci parla della rete intorno, io voglio sapere perché non si fa una rivoluzione per le panchine che non ci sono. Mentre prima non c’era il confine dell’occupazione degli spazi pubblici, e io quando uscivo la domenica trovavo i filippini da una parte i bangladesi da un'altra. Il chiudere i parchi è veramente una azione contraria a quello a cui voi state lavorando. Il pericolo del enclave c’è ancora di più con l’idea di comunità che tanto piace. È un’idea che conforta, perché si pensa che si ha un’identità in comune, invece la cosa che si valorizza è la propria storia personale, che è l’unica cosa che ci porta ad una identità e presentarsi come cittadino.


Mi convinco che c’è molto da imparare, Lucica ha parlato del imparare, ma credo che siamo noi italiani che dobbiamo imparare tantissimo. Non basta per niente sapere che tutti gli italiani hanno nonni, zii, parenti che sono stati immigrati, questo non significa niente a livello dei processi personali. Capire che il destino dipende delle persone che vivono in città, che serve il concetto di cittadinanza che per fortuna non è stato nominato in forma teorica ma per quello che è: “vivere in forma consapevole in un territorio, in una città”. Avere la maggior parte dei diritti in comune.

Vi devo ringraziare moltissimo per questa mattina.



[1] Touraine, Alain “Pourrons-nous vivre ensemble?. Egaux et differents », Paris, Fayard, 1997.
[2] Neuwirth R. “Città Ombra. Viaggio nelle periferie del mondo. Ed Fusi Orari, Italia, 2005.
[3] Roy Arundhati, “Il dio delle piccole cose”, Mediasat Mds books, Italia, 2003.
[4] Merklen, Denis “Quartiers populairs, quartiers politiques. Ed. La Dispute Paris, Francia, 2009.
[5] Cellamare, Carlo “Fare Città, pratiche urbane e storie dei luoghi”, Ed Eleuthera, Italia, 2008.
[6] Althabe G, Selim M. “Approcci etnologici della modernità. (Démarches ethnologiques au présent), Collana “Logiche Sociali”, Ed. L’Harmattan, Italia, 2000.
[7] Mestizo in spagnolo significava un non puro sangue in genere peggiorativo, per parlare di figli d’indigeni con bianchi(spagnoli o portoghesi)

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