sabato 18 giugno 2011

Il viaggio sulla Luna di Luciano di Samosata

Verso il mezzodì, sparita l'isola, un improvviso turbine roteò la nave, e la sollevò quasi tremila stadi in alto, né più la depose sul mare: ma così sospesa in aria, un vento, che gonfiava tutte le vele, la portava. Sette giorni e altrettante notti corremmo per l'aria; nell'ottavo vedemmo una gran terra nell'aria, a forma di un'isola, lucente, sferica, e di grande splendore. Avvicinatici e approdati scendemmo: e riguardando il paese, lo troviamo abitato e coltivato. Di giorno non vedemmo niente di là; ma di notte ci apparvero altre isole vicine, quali più grandi, quali più piccole, del colore del fuoco, e un'altra terra giù, che aveva città, e fiumi, e mari, e selve, e monti: e pensammo fosse questa che noi abitiamo.

Avendo voluto addentrarci nel paese fummo scontrati e presi dagl'Ippogrifi, come colà si chiamano. Questi Ippogrifi sono uomini che vanno sopra grandi grifi, come su cavalli alati: i grifi sono grandi, e la più parte a tre teste: e se volete sapere quanto son grandi immaginate che hanno le penne più lunghe e più massicce d'un albero d'un galeone. Questi Ippogrifi dunque hanno ordine di andare scorrazzando intorno alla terra, e se incontrano forestieri, di menarli dal re: onde ci prendono e ci menano da lui.

Il quale vedendoci e giudicandone ai panni, disse: Ebbene, o forestieri, siete voi Greci? E rispondendo noi di sì: E come, ci dimandò, siete qui giunti, valicato tanto spazio d'aria? Noi gli contammo per filo ogni cosa; ed egli ci narrò ancora dei fatti suoi, come egli era uomo, a nome Endimione, e come una volta mentre dormiva fu rapito dalla nostra terra, e venne qui, e fu re del paese Questa, egli disse, è quella terra che voi vedete di laggiù e chiamate la Luna. State di buon animo, e non sospettate di nessun pericolo, ché non mancherete di tutte le cose necessarie. Se condurrò a buon fine la guerra che ora faccio agli abitanti del Sole, voi vivrete presso di me una vita felicissima.

.......

Noi lo stesso giorno siamo condotti nel Sole con le mani dietro il dorso legate da un filo di ragnatela. Pensarono non di espugnare la città, ma ritiratisi fecero un muro nell'aria frapposta, sicché i raggi del Sole non giungevano più alla Luna. Il muro era ben grosso e di nuvole: onde ne venne una totale ecclissi della luna, che fu tutta ricoperta di una fitta oscurità. Sforzato così Endimione mandò ambasciatori a pregare di togliere quel muro e non farli vivere così nelle tenebre; promise di pagare un tributo, di mandar aiuti e di non far più guerra; e per questo offrì anche ostaggi. Fetonte due volte tenne consiglio coi suoi: nel primo giorno non vollero udire accordi, tanto erano sdegnati; ma il giorno appresso fu deciso altrimenti, e fu fatta la pace con queste condizioni.

Questi sono i patti della pace " che fecero i Solani e gli alleati loro coi Lunari e i loro alleati: che a i Solani diroccheranno il muro, e non irromperanno più nella Luna; renderanno i prigionieri per le taglie che saranno convenute; che i Lunari lasceranno libere le altre stelle governarsi da sé, non porteranno le armi contro i Solani, ma li aiuteranno e combatteranno con loro se qualcuno li assalirà; ogni anno il re dei Lunari pagherà un tributo al re dei Solani in diecimila anfore di rugiada, e però saranno dati diecimila ostaggi; la Colonia in Espero sarà mandata in comune, e potrà andarvi chiunque altro vorrà. Questi patti saranno scritti sopra una colonna d'elettro piantata nell'aria ai confini dei due regni. Li giurarono da parte dei Solani l'Infocato, l'Accalorato, l'Infiammato; e da parte dei Lunari il Notturno, il Mensuale, il Rilucente " .

Così fu fatta la pace, demolito il muro, e noi con altri prigionieri restituiti. Quando tornammo nella Luna ci vennero incontro ad abbracciarci con molte lacrime i compagni e lo stesso Endimione, il quale ci pregò di rimanere con lui, e di far parte della Colonia, promettendomi in moglie il figliuol suo, perché lì non ci sono donne. Ma io non mi lasciai persuadere, e lo pregai ci rimandasse giù nel mare. Come egli vide che era impossibile persuadermi, ci convitò per sette giorni, e poi ci rimandò.

Durante la mia dimora nella Luna, vidi cose nuove e mirabili che voglio raccontare. Prima di tutto là non nascono dalle femmine ma dai maschi; fanno le nozze tra maschi; e di femmine non conoscono neppure il nome. Fino a venticinque anni ciascuno è moglie, dipoi è marito; ingravidano non nel ventre, ma nei polpacci delle gambe; concepito l'embrione, la gamba ingrossa; e venuto il tempo vi fanno un taglio, e ne cavano come un morticino, che espongono al vento con la bocca aperta, e così lo fanno vivo. E credo che di là i Greci hanno tratto il nome di ventregamba che danno al polpaccio, il quale lì diventa gravido invece del ventre.

Ma conterò una cosa più mirabile di questa. È quivi una specie di uomini detti Arborei, che nascono a questo modo. Tagliano il testicolo destro d'un uomo, e lo piantano in terra: ne nasce un albero grandissimo, carnoso, a forma d'un fallo, con rami e fronde, e per frutti ghiande della grossezza d'un cubito. Quando queste sono mature, le raccolgono e ne cavano gli uomini. Hanno i genitali posticci; alcuni di avorio, i poveri di legno, e con questi si mescolano e si sollazzano coi loro garzoni. Quando l'uomo invecchia non muore, ma come fumo vanisce nell'aria. Il cibo per tutti è lo stesso: accendono il fuoco, e su la brace arrostiscono ranocchi, dei quali hanno una gran quantità che volano per aria; e mentre cuoce l'arrosto, seduti in cerchio, come intorno a una mensa, leccano l'odoroso fumo e scialano. E questo è il cibo loro. Per bere poi spremono l'aria in un calice, e ne fanno uscire certo liquore come rugiada. Non orinano, né vanno di corpo, e non sono forati come noi, ma nella piegatura del ginocchio, sopra il polpaccio. È tenuto bello fra loro chi è calvo e senza chiome: i chiomati vi sono aborriti; per contrario nella Cometa i chiomati sono tenuti belli, come mi fu detto da alcuni che c'erano stati.

Hanno i peli un po' sopra il ginocchio, non hanno unghie ai piedi, ma un solo dito tutti. Sul codrione a ciascuno nasce un cavoletto, a guisa di coda, sempre fiorito, che, se anche uno cade supino, non si rompe. Quando si soffiano il naso cacciano un miele molto agro, e quando fanno qualche fatica o esercizio da tutto il corpo sudano latte, dal quale fanno formaggio con poche gocciole di miele. Dalle cipolle spremono un olio denso e fragrante, come unguento. Hanno molte viti che producono acqua; i grappoli hanno gli acini come grandini; e io penso che quando qualche vento scuote quelle viti, si spiccano quegli acini, e cade fra noi la grandine. La pancia loro è come un carniere, vi ripongono ogni cosa, l'aprono e chiudono a piacere, e non vi si vede né interiora né fegato, ma una cavità pelosa e vellosa, per modo che i bimbi quando hanno freddo vi si appiattano dentro. Le vesti i ricchi le fanno di vetro mollissimo, i poveri di rame tessuto; ché nel paese è molto rame, e lo lavorano, spruzzandovi acqua, come la lana. Che specie di occhi hanno, ho un po' di vergogna a dirlo, perché temo di esser tenuto bugiardo, ma pur lo dirò. Hanno gli occhi levatoi, e chi vuole se li cava e se li serba quando non ha bisogno vedere; poi li pone, e vede. Molti avendo perduti i loro se li fanno prestare per vedere, e i ricchi ne hanno le provviste. Le orecchie poi sono fronde di platano; quelli che sbocciano dalle ghiande le hanno di legno.

E un altra meraviglia vidi nella reggia. Un grandissimo specchio sta sopra un pozzo non molto profondo; chi scende nel pozzo ode tutte le parole che si dicono da noi sulla terra; e chi riguarda nello specchio vede tutte le città e i popoli, come se li avesse innanzi: e io ci vidi tutti i miei, e il mio paese: se essi videro me non saprei accertarlo. Chi non crede tutte queste cose, se mai monterà lassù, saprà come io dico il vero.


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