domenica 8 maggio 2011

PLAYING WITH CITY

Il gioco è un’attività naturale delle donne e degli uomini, preziosissima e insostituibile a qualsiasi età: è, secondo le parole di un poeta e filosofo, ciò che “rende l’uomo veramente umano” (Schiller). Il gioco migliora la qualità della vita dell’individuo e quindi rende la città più bella.

Il limite tra lo spazio abitato e disabitato è il limite fra il domestico ed il selvaggio, fra l'ospitale e l'ostile, fra il reale e l'irreale, fra il cosmo ed il caos. È quindi un luogo estremamente carico di significati e di potenze al punto che alcune culture indigene, come ad esempio gli aborigeni australiani, considerano il perdersi nello spazio selvaggio un atto importantissimo. Perdersi nel mondo selvaggio, oltre i confini dell'abitare non è frutto di errore o distrazione e né la negazione dell'abitare. È il confronto con l'altro rispetto al domestico, che però è essenziale alla sua esistenza.

È il processo in cui conoscere ed abitare un luogo diventano inscindibili, in cui si costituisce la propria identità, una identità possibile solo se si riesce a mettersi in relazione, a dialogare con l'altro, con le potenze del luogo in cui si abita.

In questo senso uno spazio si trasforma in luogo in virtù del fatto che l’uomo attraverso il corpo si rapporta con lo spazio, intraprende un percorso di conoscenza instaurando una serie di relazioni fisiche, esattamente come fanno i bambini sin dal momento in cui riescono ad afferrare gli oggetti: essi attraverso i sensi – ovvero osservando, catalogando, ascoltando ma soprattutto toccando – conoscono il mondo che li circonda di cui ne diventano soggetti partecipi grazie proprio all’esperienza dell’avventura che li ha messi in relazione con lo spazio; essi arrivano alla consapevolezza di essere abitanti proprio a partire dalla scoperta sensoriale e successivamente dalla conoscenza dello spazio.

È attraverso i sensi, la loro perpetua attivazione e il loro continuo alternarsi nel controllo dello spazio che si instaura quella rete di relazioni che lo portano a divenire luogo e in quanto tale a poter essere abitato: l’abitare, come lo spazio e il tempo, è un fenomeno che ci appartiene, è una realtà del nostro corpo; l’abitare è prima di tutto veduto e toccato, percepito dal corpo, nell'abitare si fissa l’identità dell’uomo.

Tuttavia, oltre lo spazio abitato e quello completamente selvaggio si colloca lo spazio pubblico, definito tale dagli usi che se ne fanno, costruito intorno all'esplorazione delle pratiche che se ne fanno piuttosto che secondo regole determinate e predefinite; lo spazio in questo senso diviene creativo, flessibile e adattabile ad ospitare una partitella improvvisata piuttosto che una passeggiata o una pedalata in bicicletta...

Lo spazio pubblico si rivela “amplificatore del possibile” e, condiviso con sapienza, permette la compresenza di diversi usi e differenti pratiche nell'arco della giornata, della settimana, dell'anno; la pratica del gioco svolge in questo processo un ruolo di fondamentale importanza nell'interpretazione dello spazio pubblico: «il gioco è un’attività umana che nasce in una sfera primitiva e si pone su un livello più elevato prima della sfera culturale perché prevede l’istinto e non la razionalità. I bambini sono capaci di trasformare con la loro immaginazione gli oggetti che usiamo convenzionalmente in altre cose: una sedia diventa una nave, uno scatolone una macchina, una mucchio di sabbia una montagna da scalare» (E. Caporrella).

La strada, il marciapiede, il giardinetto incolto sotto casa diventano così luoghi di possibili scenografie costruite dalla fantasia dei bambini, teatro di apprendimento: attraverso l’esperienza si conoscono le cose, la possibilità di toccare e manipolare lo spazio conferisce all’uomo, o meglio ancora al bambino che sarà uomo, sicurezza e fiducia, che sono elementi basilari su cui costruire una relazione, che sia essa uomo-uomo o uomo-spazio. Se si priva il bambino della possibilità di fare esperienze di questo tipo egli diventerà adulto portandosi dietro un bagaglio di paure, incertezze e diffidenze verso ciò che lo circonda; ecco allora comparire, risolti in chiave moderna, fossati e trincee, edifici bunker e mura invalicabili atte a sottolineare un confine tra ordine e natura selvaggia”, che mirano a separare, a tenere lontano, a ripararci da un pericolo incombente che minaccia costantemente il nostro corpo. Dividere, escludere, separare l’uno dall’altro. Negli spazi urbani che quotidianamente percorriamo sembra che il limite, il confine dello spazio abbia assunto queste prerogative, impoverendosi di un simbolismo di cui era ricco in tempi – ma anche luoghi – non così lontani.

Tuttavia, nonostante la carenza di spazi utilizzabili per attività ricreative, si osserva nello spazio urbano di Roma, una straordinaria vitalità dovuta a forme di appropriazione ludica dello spazio da parte di soggetti di diverse generazioni e di diverse provenienze: complice anche le culture che molti migranti si portano dietro è possibile vedere che “il fuori” può ancora essere uno spazio che i bambini attraversano e trasformano secondo il loro bisogno primario: giocare.


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